Guardando quel che abbiamo vicino e che spesso è stato oggetto di racconti da parte nostra, ci spostiamo in un’area specifica a pochi chilometri da Torino, tra Piemonte e Valle d’Aosta. Le vallate a cavallo del massiccio del Gran Paradiso che dal 1922 sono Parco Nazionale d’Italia, sono l’area in cui vive uno degli animali più strettamente legati all’immaginario alpino.
Stiamo parlando dello Stambecco alpino, uno splendido animale che è legato a doppio filo alle nostre Alpi occidentali e alla casata dei Savoia, che hanno plasmato la storia del Piemonte e l’aspetto del Parco Nazionale del Gran Paradiso.
Cerchiamo però di capire di chi stiamo parlando, prima di tutto.
Il nome scientifico dello Stambecco alpino è Capra ibex (letteralmente “capra stambecco”) e qui è rapido capire che stiamo parlando di un membro del genere Capra, ovvero uno degli generi più legati alla storia dell’uomo: si pensa siano stati tra i primi animali addomesticati dall’uomo per via della loro naturale confidenza.
Appartiene alla famiglia dei bovidi, ungulati artiodattili (ovvero che appoggiano il proprio peso sulle unghie e sono dotati di un numero pari di dita) evolutosi in un ambiente dove gli inverni sono rigidi e le estati miti, con pendenze e intervalli di altitudine e dislivello repentini e consistenti. Predilige ambienti rocciosi al di sopra della linea degli alberi, dove esce fuori l’attitudine incredibile dell’animale nel muoversi su costoni ripidi e detriti: non a caso chi si muove bene in montagna, viene definito appunto “uno stambecco”!

E’ un erbivoro ruminante e va ghiotto di erba e germogli, non disdegnando muschi e licheni che reperisce spostandosi di quota in base alla stagione. Essendo un ruminante, spesso integra la sua dieta con concrezioni saline di cui il foraggio è povero, ed è questo il motivo per cui in primavera lo si vede spesso sulle strade o sui muraglioni delle dighe o di vecchie caserme a leccare l’asfalto per metabolizzare i sali residui dallo spargimento del sale antigelo: nel mentre ovviamente si sposta più in basso ad approfittare delle nuove erbe appena spuntate.

Come si riconosce uno stambecco?
Corporatura tozza e zampe articolate con uno zoccolo prominente, pelo dal colore che va dal grigio al marrone a seconda della stagione, la consueta pupilla orizzontale da erbivoro per avere un’ampia visione panoramica sui campi e sui predatori (che solitamente arrivano da terra) ed un portamento fiero ed una piccola coda.
Ma l’elemento che ci fa riconoscere chiaramente uno Stambecco, sono le sue corna. Permanenti e costituite da una sostanza cornea (detta “astuccio”) che cresce sopra un’impalcatura ossea ben salda al cranio, sono presenti sia sul maschio che sulla femmina. Le corna del maschio possono raggiungere quasi il metro di lunghezza, mentre quelle della femmina circa un terzo di metro al massimo, sempre in forma curva verso il dorso dell’animale. Inoltre quelle dei maschi sono più nodose rispetto a quelle delle femmine che risultano più lisce, motivo per cui è più facile stimare l’età di un maschio rispetto ad una femmina, contando gli anelli nodosi che corrispondono all’anno di età (la crescita si arresta in autunno e corrisponde alla curva tra un anello e l’altro). Le corna sono utilizzate dai maschi durante la stagione degli accoppiamenti e nelle sfide per la conquista di compagne.
E qui parlando di corna di stambecco e trofei, dobbiamo parlare dei Savoia e del motivo per cui questo animale rappresenta un esempio vivente dell’aspetto ecologico ed ambientale delle nostre Alpi.
Da quelle che sono le nostre fonti, sappiamo che sulle Alpi lo stambecco è stato cacciato da tempi molto antichi (Ötzi, l’uomo del Similaun morto più di 5000 anni fa, nel suo stomaco aveva speck di stambecco e le grotte europee abitate nel Paleolitico sono spesso arredate con graffiti che rappresentano l’animale) e la tradizione è proseguita fino all’arrivo delle armi da fuoco, che hanno segnato un tracollo demografico dello Stambecco.
Lentamente l’areale di presenza si è sempre più ristretto fino ad arrivare a metà del XIX secolo ad avere lo Stambecco solo nelle Alpi occidentali. Era utilizzato in farmacia in quasi tutte le sue parti e vi elenchiamo qui sotto tutto ciò che elencava la Reale farmacia episcopale di Salisburgo nella “Farmacopea dello stambecco” del 1686.

Corna: triturate erano molto richieste dai farmacisti perché ritenute una panacea contro molte affezioni, quali crampi, coliche e avvelenamenti. Polverizzate rafforzavano il potere curativo di altri medicinali. Usate come bicchiere erano di aiuto contro gli avvelenamenti. I pugnali con il manico fatto con le corna erano usati come porta fortuna e per la buona salute.
Sangue: considerando che la specie è in grado di vivere in climi tanto freddi, i coaguli di sangue erano raccomandati per tutte le malattie da raffreddamento come polmoniti, bronchiti e pleuriti. Toccasana contro i calcoli alla vescica e ai reni e l’anemia, il sangue conferiva anche coraggio, resistenza e forza.
Ossa: curavano nevralgie, cefalee ed artriti ma occorreva che fossero “raccolte durante la luna nuova in numero dispari” e poi bruciate secondo un preciso cerimoniale.
Escrementi: preparati con rigorosa ricetta erano ritenuti efficaci contro sciatica ed infiammazioni.
Zoccoli: erano considerati un potente afrodisiaco.
Osso del cuore: si tratta di un piccola struttura cartilaginea a forma a croce, situata alla base del muscolo cardiaco. Era ritenuta capace di guarire ogni malattia incurabile. Portato al collo era un potente talismano capace di proteggere da ogni forma di morte violenta.
Midollo: ottimo per cura dei dolori reumatici e artritici, contusioni e postumi delle fratture.
Pelle: utilizzata per realizzare cinture e bretelle che mantenevano in buona salute.
Insomma, l’elenco era per farvi capire quanto in realtà questo animale fosse ricercato anche nelle sue parti più piccole (era ricercato persino il bezoario, ovvero un corpo estraneo che si trova nelle vie digerenti e spesso legato a pelo leccato o erba indigesta dall’animale) e quanto il suo orologio ecologico stesse puntando al termine.
Arrivò dunque un Re che amava fermarsi a discutere in piemontese e pare avesse un carattere bonario e sbrigativo, amato dai valligiani per questo suo aspetto “ruspante”, che però aveva un’altra grande passione: la caccia. Parliamo del primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II che nel 1856 istituì un’area privata in Valsavarenche dove l’unico autorizzato alla caccia allo Stambecco era solo lui. Nacquero qui infatti i guardiacaccia che proteggevano gli ultimi esemplari per destinarli al fucile del Re e i trofei alle sale delle Case di Caccia, palazzine e palazzi Reali.

L’ultima caccia si svolse nel 1913 quando Vittorio Emanuele III, meno interessato del nonno alle battute venatorie, decise di regalare i territori allo Stato italiano preparando la strada alla storia del primo Parco Nazionale d’Italia.
La cosa che è interessante da raccontare e che fa si che lo stambecco alpino sia un esempio vivente di un risvolto ecologico è proprio legato alla sua feroce caccia che ha ridotto la comunità a circa un centinaio di esemplari e portandola a quello che in zoologia è denominato “collo di bottiglia”: il patrimonio genetico di questi esemplari che si sono accoppiati col tempo è ridotto e da spazio a poca variabilità ed insorgere di problematiche. Infatti, come riporta uno studio portato avanti dal PNGP, “l’accoppiamento tra individui imparentati, fenomeno noto come inbreeding, può portare ad una riduzione delle capacità riproduttive o della sopravvivenza della prole. Inoltre, nelle popolazioni soggette ad inbreeding può avvenire l’accumulo di mutazioni genetiche che possono essere dannose”
Ad oggi, possiamo ammirare lo stambecco su tutto l’arco alpino dalle Marittime fino all’Austria e secondo la IUCN, l’animale risulta a basso rischio di estinzione. Un elemento vivente legato alla storia delle Alpi e degli uomini che le hanno vissute, compagno dell’uomo europeo fin dagli albori e vascello delle Alpi nell’immaginario collettivo, vi invitiamo a venire con noi nelle nostre escursioni in Piemonte ad avvistare questo incredibile animale.